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Goodbye Mr. Mann

Allorché giunse a quelle righe non ci fece troppo caso. F. continuò la lettura del Doctor Faustus, intorpidito dalla stanchezza e dall’umidità della notte, ancora troppo calda per riuscire a prendere sonno, nonostante l’ora tarda. Girò pagina, dette una scorsa veloce alla fine del capitolo. Contemplò un ragno nell’angolo in alto a destra della sua camera da letto e poi stette in silenzio ad ascoltare la voce della notte metropolitana. Un treno in lontananza, un motorino di passaggio sotto casa e poco più. Riordinò le idee, riprese velocemente la lettura dell’ultimo capoverso, ma questa volta ebbe come un sussulto.

Quello che è rimasto fermo per, diremo così, atavismo naturalistico come rudimento barbarico dell’epoca premusicale, è il glissando, un mezzo che, per ragioni profondamente culturali, va trattato con la massima cautela e nel quale mi è parso sempre di sentire un demonismo anticulturale e addirittura antiumano.

Che vaga inquietudine! Come la madeleine di Proust, quelle parole, su cui adesso si soffermava con attenzione, rievocavano antiche emozioni che si erano addormentate nel fondo della memoria, in un tempo della sua vita ormai perduto. Pensò agli anni di scuola, in Conservatorio, a Parma; e da quel ricordo fu subito rimbalzato, per uno strano gioco di libere associazioni, al suo presente di musicista dei Violini di Santa Vittoria. Soppesò con estrema cura il fatto che Paolo Borciani, il primo violino e fondatore del Quartetto Italiano, a cui Arnaldo Bagnoli aveva dedicato uno splendido tango, da bambino avesse suonato il liscio per fare esperienza e per guadagnare qualche lira. Da lì era cominciata la scalata alle vette del concertismo internazionale: dalla pianura ai teatri più importanti del mondo, da Bagnoli appunto a Beethoven.

Mentre lui cosa aveva combinato? In un certo senso, un percorso del tutto speculare. Aveva cominciato proprio da Beethoven, Mozart, Bach, studiati in Conservatorio ed era finito a fare il liscio. Per dirla con Thomas Mann, sembrava l’inizio di una carriera brillante e invece fu la regressione dall’umanesimo alla bestialità più rozza. Una disgustosa mancanza di educazione.

Rimase appeso al filo di questa epifania per qualche minuto. Fissò il soffito sino a quando la macchina per la pulizia stradale non lo strappò ai suoi pensieri, come svegliandolo da un sogno. Erano già le quattro del mattino e il ragno nell’angolo se ne stava ancora al suo posto, immobile. Chiuse il libro e spense la luce, ed ebbe appena il tempo di appoggiarsi su un lato che si addormentò di un sonno profondo e senza sogni. Sul pino di fronte alla finestra, un merlo salutava le prime luci dell’alba col suo fischio graziosamente strisciato. Quando a mezzogiorno F. si svegliò, il vento di tramontana si era portato via la canicola e un sole radioso illuminava la radura dove i diversi si incontrano.

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Mi Piace Tanto

I Violini di Santa Vittoria con Riccardo Tesi e Claudio Carboni in Mi Piace Tanto, di Arnaldo Bagnoli. Teatro Comunale di Carpi 29/03/2009.

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Tango del Fojonco

I Violini di Santa Vittoria in Tango del Fojonco, di Davide Bizzarri. Teatro Comunale di Carpi 29/03/2009.

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Tango Mia Passione

Dall’Osteria del Fojonco, Tango Mia Passione di Arnaldo Bagnoli. I Violini di Santa Vittoria con Riccardo Tesi, Teatro Comunale di Carpi 29/03/2009.

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L’Osteria del Fojonco (introduzione)

C’è chi sostiene che il fojonco sia una specie di faina, un razziatore di pollai che si nutre del sangue delle sue vittime. Altri, come lo scrittore Giuseppe Pederiali, secondo me più nel giusto, assicurano che tale bestia abbia piuttosto le sembianze di un goffo rapace; un uccellaccio a tre zampe, con una passione irresistibile per il buon vino. Non ci sono prove incontrovertibili della sua esistenza, ma alcuni indizi sì: racconti di cacciatori e contadini che parlano di strani nidi intrecciati con foglie di vite e fronde di olmo, o di inspiegabili sparizioni di lambrusco dalle cantine. Insomma, come dicono i vecchi della bassa, fole, racconti da osteria, mentre la nebbia, fuori, ammutolisce la campagna.
A Santa Vittoria di Reggio Emilia, il gradino più basso della piramide sociale è occupato dai braccianti, i proletari della terra. Il bracciante d’inverno sente i morsi della fame, perché il campo non ha bisogno che di poche cure, e il lavoro scarseggia. Si mangia polenta, solo polenta; mai un boccone di carne. E si muore di pellagra. La morte è una presenza costante e il suono di una marcia funebre copre tutti i giorni la strada che dalla chiesa porta al cimitero. E allora, per guadagnare una dignità umana, ci si inventa di tutto, anche un nuovo modo di vivere e di lavorare. Suonare quando il campo è addormentato, durante le feste di carnevale, o per quelle dei santi; suonare per tutte le ricorrenze e con un unico scopo: costruire una vita migliore.
Questa è anche la storia di Arnaldo Bagnoli, violinista virtuoso, un uomo semplice e nobile al tempo stesso. Arnaldo faceva il liscio, la musica da ballo peccaminosa e sgradita ai preti, perché i giovani la ballavano allacciati, piroettando in turbini di desiderio e di carezze celate agli sguardi severi dei genitori. Oggi dici liscio e pensi subito a certi intrattenimenti un po’ bizzarri, ma una volta era una cosa diversa, non una cosa più seria o più raffinata, semplicemente diversa. Il liscio era la musica nella quale una generazione di uomini di fatica riconosceva il proprio emblema. Come ricorda Carmelo Mario Lanzafame, era la musica del socialismo, che tumultuoso a passo di valzer si diffondeva nelle campagne, di pari passo con la nascita delle prime cooperative. Era la musica che si ballava nei festival, nelle balere: luoghi magici, che impresari stravaganti trasportavano in blocchi nella campagna, e che poi si montavano con l’unico scopo di far innamorare le persone.
Ti pare di vederli, i festival; se ne stanno lì, in mezzo al niente, come navi che solcano mari oscuri, illuminati dalla calda luce dell’acetilene. Pavimenti di legno, lunghi anche settanta metri, tirati a lucido come i parquet dei signori per fare scivolare meglio le scarpette dei ballerini. L’orchestra al centro della sala e tutt’intorno le coppie a volteggiare. Valzer, mazurke, polke, e tanghi; un ballo dopo l’altro. E poi un preludio d’opera, di quelli che si ascoltano dagli organetti o dalle bande di paese, per rompere il ritmo della serata e per fare riposare i danzatori. Gli sguardi appassionati, i sorrisi; la danza che cura con l’oblio la pesantezza della vita.
Se le musiche di Arnaldo Bagnoli, seppur in frammenti, sono tornate alla luce come tesori nascosti che il tempo aveva seppellito nella memoria, il merito è di Andrea Bonacini, presidente di Shéhérazade. Gli arrangiamenti di Davide Bizzarri e il lavoro degli altri membri del gruppo, di Riccardo Tesi e Claudio Carboni, hanno fatto il resto. Ci siamo divertiti a giocare con la tradizione, ad alternare brani in versione filologica ad altri più creativi, in uno sforzo di elaborazione che nasce da un confronto costante. Mi piace poter dire, adesso che tutto è terminato, che questo lavoro non è la fine di un percorso ma un nuovo inizio, un’esperienza che non ha nessuna vocazione antiquaria, ma che vuole fare del passato un presente da rilanciare nel futuro.

Orfeo Bossini

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