
A questo punto per parlare di Il capitale umano, di cosa sia davvero o, meglio, di come appaia nella sua immediatezza a chi lo guarda, bisogna impugnare il machete e sfrondare tutte le incrostazione che nelle ultime due settimane si sono depositate e essiccate sul suo povero corpo filmico. Corpo usato e maltrattato, abusato e strattonato da tutte le parti (ideologiche, politiche) per sostenere ora questa ora quella visione del mondo, anzi diciamo – derubricando e riducendo – questa o quella visione dell’italian capitalism. Capitalismo disumano per chi ritiene che il solo far soldi, o desiderare di farne, o darsi da fare per guadagnarne, sia peccato mortale antisociale, non avendo costoro mai letto, temo, L’etica protestante e lo spirito del capitalismo di Max Weber. Secondo il quale (semplifico un attimo) il capitalismo sarebbe nato in ambito calvinista dalla spinta del singolo a cercare nel proprio successo professionale ed economico, e nella ricchezza conseguita, la prova della salvezza della propria anima. Il successo, e il denaro, non come dannazione ma, al contrario, conferma del proprio impegno. L’esatto contrario della visione vetero-marxiana o solidaristico-sociocattolica che nel denaro individua la prova della colpa, del male, della mani sporche di fango o di sangue. Visione cui soggiace il film di Virzì, dove in ogni scena sembra di risentire il gaberiano “i borghesi son tutti dei porci”. Borghesi maledetti, infami, “lerci” (sempre Gaber).
(via Luigi Locatelli)
In realtà, a mio personalissimo parere, la cosa che funziona meglio del film di Paolo Virzì appena uscito nelle sale è proprio la caratterizzazione dei personaggi, descritti con iper realismo ma molto aderenti ad una antropologia capitalista che, piaccia o non piaccia, in Italia negli ultimi 20/30 anni ha avuto un riferimenro geografico ben preciso. Il profondo Nord dei Peregos, dei capannoni, delle partite Iva, e delle fabbrichette di famiglia. Perché da quell’ideale di sviluppo sociale, di cui parla Locatelli facendo riferimento a Max Weber, temperato dall’etica religiosa e dalla responsabilità nei confronti delle future generazioni, si sia arrivati al trionfo dell’avidità è un problema che ci interroga tutti. Ed è questo il nodo da sciogliere, non la scelta dicotomica tra accumulazione da una parte e assitenzialismo vetero – marxista dall’altra. “Un soldino risparmiato è un soldino guadagnato!”, era il mantra dei figli dei padri pellegrini che con la Bibbia nel taschino e il Winchester sotto il braccio si preparavano a colonizzare un continenete con fervore missionario (e furia omicida, ma questo è un altro capitolo). Cosa c’entrano quelli con questi? Niente. Niente etica, niente fervore, niente impegno. “Ci siamo giocati tutto, anche le pensioni dei nostri figli”… è una frase meravigliosa e terribile nella sua cruda e sintetica verità.
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