
Che il narcisismo sia la malattia mortale di questi anni tristi e fiacchi è una verità difficile da contestare (o almeno così mi pare). Esso si rivela nel godimento compulsivo, usato impropriamente come terapia fai da te con cui anestetizzare paure insanabili, ma anche nell’individualismo venefico, refrattario al rispetto delle più semplici norme sociali. Ancora una volta, a costo di apparire irrimediabilmente di parte, dirò che la causa di questo male è lì, nel capitalismo. O meglio in una sua involuzione post – ideologica, in cui finanza e guadagno facile sono diventati i succedanei dell’operosità che, come ricordava Hegel, modella la coscienza verso una consapevolezza nuova e più profonda.
Aggiungo però, a mia parziale riabilitazione, che da sinistra poco o nulla è stato fatto per arginare il problema. Anzi, mi persuade sempre più l’idea che la rivoluzione sessantottina, con la sua critica ai valori borghesi, abbia finito col favorire un evidente culto del soggetto a scapito della cura comunitaria e della solidarietà umana. Si è fatta radical – chic, si è imborghesita essa stessa con l’aggravante non piccola di una fastidiosa ipocrisia che presta il fianco ai disgusti dei detrattori.
È una vera e propria manovra a tenaglia, che ha prodotto una positiva emancipazione degli agenti sociali ma anche, a poco a poco, una bulimia piena di imprevisti e rovinosi effetti collaterali. Un po’ come accade per alcuni farmaci, che se consumati in eccesso provocano una sorta di effetto paradosso, l’esperienza di un’autonomia assoluta ha finito col generare una nuova serie di vincoli, meno eclatanti di quelli tradizionali ma forse ancora più limitanti.
Insegna Kierkegaard che c’è un disagio da difetto di possibilità ma che ve n’è anche uno opposto, che nasce nello scenario desolato del tutto è possibile. Chi ha conosciuto l’horror vacui, anche solo per un istante, cerca di evitare la vertigine abominevole aggrappandosi a modelli irraggiungibili di forza e conquista. Lo spazio desacralizzato dalla rottura dei comandamenti sociali diventa un campo aperto in cui gli uomini si incontrano misurandosi solo in termini di volontà di potenza. In pratica, una sorta di legge di natura applicata ai rapporti umani, dove il più forte si impone, la libertà di fare tutto si tramuta necessariamente in libertà di fare niente, e l’angoscia diventa la tonalità emotiva che caratterizza uno stato di precarietà permanente.
Ora, il tema qui presentato succintamente dal sottoscritto, viene articolato e declinato con maggiore ampiezza e proprietà nel Complesso di Telemaco, a partire da un punto di vista psicoanalitico di matrice lacaniana. Massimo Recalcati ci spiega che anomia, egoismo, onnipotenza, debolezze di cui tutti più o meno oggi siamo vittime, hanno un’unica radice comune che ha a che fare con il tramonto della figura del padre. Un archetipo che viene letto e riscoperto dall’autore senza nostalgie autoritarie, ma con l’intento di rispondere ad una domanda di senso sempre più urgente. Una domanda che riempie l’assenza delle prescrizioni, e che solo in quel nulla esistenziale può essere formulata.
La difesa del valore della norma, quindi, non deve essere interpretata per forza in funzione di un nuovo moralismo dogmatico. Il problema è più sottile e non è di certo decifrabile attraverso una semplificazione ideologica. Qui si parla di misura, di forma, e conseguentemente della possibilità di progettare la propria vita. Perché, ci avverte Recalcati, l’entrata nel regno della libertà è anche l’inizio del disorientamento che devitalizza il desiderio; nel senso che un appetito non smussato dall’obbedienza diventa brama inappagabile. E senza un limite simbolico, la necessità delle cose la chiamerebbero i greci, gli orfani incestuosi si espongono al pericolo di una tracotanza sempre punita tragicamente.
Nemmeno le morti della vergogna e del senso del pudore possono essere salutate con la leggerezza del sogno che si realizza. L’uomo senza colpa, che non conosce tentennamenti, sempre pronto all’azione e nemico della riflessione, è il prodotto disanimato di un profondo paranoide. L’incapacità di porre un limite al proprio desiderio di onnipotenza si abbatte sugli altri con la ferocia del delirio. Il fallimento assume i contorni multiformi della sfortuna, del destino tragico o, per quanto riguarda la cronaca, dei giudici comunisti e dell’Europa cattiva assoggettata ai capricci e alla perfidia di una “culona inchiavabile”.
Un vero e proprio disturbo del sé, grandioso nella sua pochezza, che non può essere sottostimato solo perché è fenomeno di massa. Anzi, la natura epidemica (nel caso italiano sarebbe più opportuno parlare di pandemia, visto che certi tratti del comportamento sembrano connaturati allo spirito nazionale da sempre) rende il problema strutturale e non facilmente risolvibile. Sino a quando non cambieranno le condizioni che hanno permesso questa vera e propria aberrazione, saremo condannati ad uno sguardo senza orizzonte: la vita che si consuma nell’istante sempre uguale a se stesso, la frenesia del fare senza un’idea guida, l’impossibilità di scegliere un mondo diverso. Come mosche intrappolate in una bottiglia.
Essere Telemaco è caricarsi sulle spalle il peso della contraddittorietà. Amare la verità prima di tutto, poiché unicamente nella verità può prendere corpo la nostra salvezza. Secondo Recalcati, Telemaco è il vero erede, colui che sulla spiaggia di Itaca, mentre scruta l’orizzonte, con il ritorno del padre attende anche la fine dell’orgia dei proci. Solo Ulisse può porre fine a quell’ingiustizia e fare del caos un cosmo, un ordine morale. A differenza di Edipo, Telemaco non nutre odio nei confronti del genitore, poiché la sua condizione di orfano sin dalla nascita l’ha preservato dalla violenza muta di un’educazione che genera rancore. Per questo motivo, egli non è nemmeno animato dallo spirito intransigente del rivoluzionario. Non è l’anti – Edipo, la macchina desiderante di cui parlano Deleuze e Guattari, e gli è aliena pure l’indifferenza di Narciso che non riconosce le storture del mondo e che si misura solamente con il proprio godimento.
Telemaco testimonia la possibilità del desiderio, che si costruisce nel riconoscimento di una provenienza ma che in quella consapevolezza non si esaurisce. Il suo grido perduto nella notte necessita di una risposta che è prima di tutto etica; nel modo in cui solo si può intendere autenticamente questa espressione, che allude essenzialmente ad una libertà intimamente e indissolubilmente connessa alle proprie responsabilità. Egli raccoglie il testimone del padre per realizzare il suo cammino. È il vero erede perché tradisce la tradizione, nel senso di una vivificazione che non si cura dell’abito ma della sostanza che questo protegge.
Dobbiamo salvare Telemaco, con la forza delle parole che risuonano come un impegno: “sì, sono qui per te!”. La saggezza di questo ragazzo è profonda e la sua speranza nutrirà nuovamente le ali rattrappite dei nostri ideali. Dobbiamo salvare Telemaco perché solo attraverso il riconoscimento della vacuità di ogni egoismo, potremo anche noi ritrovare il nostro posto nel mondo.
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