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Variazione su un tema di Merleau-Ponty

La vera filosofia consiste nel reimparare a vedere il mondo, e in questo senso una storia raccontata può significare il mondo con altrettanta profondità che un trattato di filosofia.

Maurice Merleau Ponty, Fenomenologia della Percezione

Scrivo per lasciare una traccia e per dipanare una matassa. Sto nel mondo, con il mio progetto di vita e più proietto lo sguardo all’interno di questo effimero sogno di un altro che è la mia coscienza e più ritrovo le mille sfaccettature di intenzioni che sempre mi anticipano. Provo a sincronizzare il tempo del mio esistere sul ritmo della vita. Ma il pensiero slitta in una sincope che non risolve. Fuori di me è la verità. Io sono lo sfondo della mia vicenda. È ormai giunto il tempo di rassegnarsi a questa penosa sensazione di vuoto.

In questa crisi ho scoperto l’opportunità di un destino diverso. Ho incontrato l’altro velato dal mantello dello scandalo, e ho capito lo sforzo di un cammino in salita, la corsa lunga di chi insegue una speranza. Dov’è la sintesi spontanea, il noi raccontato dagli innamorati nel cuore della giovinezza? L’abbraccio fraterno che risolve il travaglio di un conflitto e che consola il vile? Conosco un solo coraggio per cui valga la pena di spendere una vita intera: quello delle idee. In questo eterno gioco da principianti che è la filosofia ho pensato senza pudore la nudità delle cose. Faticosamente ho praticato la verità, sacrificando l’incanto animale da cui provengo e guadagnando il mio diritto di parola, la consolazione di un impegno duraturo.

I tendini, le vene che affiorano dal dorso delle mie mani sembrano la propaggine di un sé frammentato. Io sono queste mani che fatico a riconoscere come mie. Sono quel lui che incrocio nello specchio e che sempre mi priva di ogni spontaneità. Eppure, o proprio per questo motivo, ho bisogno di abitare un mondo. E queste parole sono prima di tutto il farsi di un’idea che si incarna, l’incantesimo che spando su un essere che sempre mi sfugge ma che continua ad interrogarmi. Vuole essere nominato, nominarmi. Pretende uno stile, ed è ciò che intendo offrire.

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Il Complesso di Telemaco

Il Complesso di Telemaco

Che il narcisismo sia la malattia mortale di questi anni tristi e fiacchi è una verità difficile da contestare (o almeno così mi pare). Esso si rivela nel godimento compulsivo, usato impropriamente come terapia fai da te con cui anestetizzare paure insanabili, ma anche nell’individualismo venefico, refrattario al rispetto delle più semplici norme sociali. Ancora una volta, a costo di apparire irrimediabilmente di parte, dirò che la causa di questo male è lì, nel capitalismo. O meglio in una sua involuzione post – ideologica, in cui finanza e guadagno facile sono diventati i succedanei dell’operosità che, come ricordava Hegel, modella la coscienza verso una consapevolezza nuova e più profonda.

Aggiungo però, a mia parziale riabilitazione, che da sinistra poco o nulla è stato fatto per arginare il problema. Anzi, mi persuade sempre più l’idea che la rivoluzione sessantottina, con la sua critica ai valori borghesi, abbia finito col favorire un evidente culto del soggetto a scapito della cura comunitaria e della solidarietà umana. Si è fatta radical – chic, si è imborghesita essa stessa con l’aggravante non piccola di una fastidiosa ipocrisia che presta il fianco ai disgusti dei detrattori.

È una vera e propria manovra a tenaglia, che ha prodotto una positiva emancipazione degli agenti sociali ma anche, a poco a poco, una bulimia piena di imprevisti e rovinosi effetti collaterali. Un po’ come accade per alcuni farmaci, che se consumati in eccesso provocano una sorta di effetto paradosso, l’esperienza di un’autonomia assoluta ha finito col generare una nuova serie di vincoli, meno eclatanti di quelli tradizionali ma forse ancora più limitanti.

Insegna Kierkegaard che c’è un disagio da difetto di possibilità ma che ve n’è anche uno opposto, che nasce nello scenario desolato del tutto è possibile. Chi ha conosciuto l’horror vacui, anche solo per un istante, cerca di evitare la vertigine abominevole aggrappandosi a modelli irraggiungibili di forza e conquista. Lo spazio desacralizzato dalla rottura dei comandamenti sociali diventa un campo aperto in cui gli uomini si incontrano misurandosi solo in termini di volontà di potenza. In pratica, una sorta di legge di natura applicata ai rapporti umani, dove il più forte si impone, la libertà di fare tutto si tramuta necessariamente in libertà di fare niente, e l’angoscia diventa la tonalità emotiva che caratterizza uno stato di precarietà permanente.

Ora, il tema qui presentato succintamente dal sottoscritto, viene articolato e declinato con maggiore ampiezza e proprietà nel Complesso di Telemaco, a partire da un punto di vista psicoanalitico di matrice lacaniana. Massimo Recalcati ci spiega che anomia, egoismo, onnipotenza, debolezze di cui tutti più o meno oggi siamo vittime, hanno un’unica radice comune che ha a che fare con il tramonto della figura del padre. Un archetipo che viene letto e riscoperto dall’autore senza nostalgie autoritarie, ma con l’intento di rispondere ad una domanda di senso sempre più urgente. Una domanda che riempie l’assenza delle prescrizioni, e che solo in quel nulla esistenziale può essere formulata.

La difesa del valore della norma, quindi, non deve essere interpretata per forza in funzione di un nuovo moralismo dogmatico. Il problema è più sottile e non è di certo decifrabile attraverso una semplificazione ideologica. Qui si parla di misura, di forma, e conseguentemente della possibilità di progettare la propria vita. Perché, ci avverte Recalcati, l’entrata nel regno della libertà è anche l’inizio del disorientamento che devitalizza il desiderio; nel senso che un appetito non smussato dall’obbedienza diventa brama inappagabile. E senza un limite simbolico, la necessità delle cose la chiamerebbero i greci, gli orfani incestuosi si espongono al pericolo di una tracotanza sempre punita tragicamente.

Nemmeno le morti della vergogna e del senso del pudore possono essere salutate con la leggerezza del sogno che si realizza. L’uomo senza colpa, che non conosce tentennamenti, sempre pronto all’azione e nemico della riflessione, è il prodotto disanimato di un profondo paranoide. L’incapacità di porre un limite al proprio desiderio di onnipotenza si abbatte sugli altri con la ferocia del delirio. Il fallimento assume i contorni multiformi della sfortuna, del destino tragico o, per quanto riguarda la cronaca, dei giudici comunisti e dell’Europa cattiva assoggettata ai capricci e alla perfidia di una “culona inchiavabile”.

Un vero e proprio disturbo del sé, grandioso nella sua pochezza, che non può essere sottostimato solo perché è fenomeno di massa. Anzi, la natura epidemica (nel caso italiano sarebbe più opportuno parlare di pandemia, visto che certi tratti del comportamento sembrano connaturati allo spirito nazionale da sempre) rende il problema strutturale e non facilmente risolvibile. Sino a quando non cambieranno le condizioni che hanno permesso questa vera e propria aberrazione, saremo condannati ad uno sguardo senza orizzonte: la vita che si consuma nell’istante sempre uguale a se stesso, la frenesia del fare senza un’idea guida, l’impossibilità di scegliere un mondo diverso. Come mosche intrappolate in una bottiglia.

Essere Telemaco è caricarsi sulle spalle il peso della contraddittorietà. Amare la verità prima di tutto, poiché unicamente nella verità può prendere corpo la nostra salvezza. Secondo Recalcati, Telemaco è il vero erede, colui che sulla spiaggia di Itaca, mentre scruta l’orizzonte, con il ritorno del padre attende anche la fine dell’orgia dei proci. Solo Ulisse può porre fine a quell’ingiustizia e fare del caos un cosmo, un ordine morale. A differenza di Edipo, Telemaco non nutre odio nei confronti del genitore, poiché la sua condizione di orfano sin dalla nascita l’ha preservato dalla violenza muta di un’educazione che genera rancore. Per questo motivo, egli non è nemmeno animato dallo spirito intransigente del rivoluzionario. Non è l’anti – Edipo, la macchina desiderante di cui parlano Deleuze e Guattari, e gli è aliena pure l’indifferenza di Narciso che non riconosce le storture del mondo e che si misura solamente con il proprio godimento.

Telemaco testimonia la possibilità del desiderio, che si costruisce nel riconoscimento di una provenienza ma che in quella consapevolezza non si esaurisce. Il suo grido perduto nella notte necessita di una risposta che è prima di tutto etica; nel modo in cui solo si può intendere autenticamente questa espressione, che allude essenzialmente ad una libertà intimamente e indissolubilmente connessa alle proprie responsabilità. Egli raccoglie il testimone del padre per realizzare il suo cammino. È il vero erede perché tradisce la tradizione, nel senso di una vivificazione che non si cura dell’abito ma della sostanza che questo protegge.

Dobbiamo salvare Telemaco, con la forza delle parole che risuonano come un impegno: “sì, sono qui per te!”. La saggezza di questo ragazzo è profonda e la sua speranza nutrirà nuovamente le ali rattrappite dei nostri ideali. Dobbiamo salvare Telemaco perché solo attraverso il riconoscimento della vacuità di ogni egoismo, potremo anche noi ritrovare il nostro posto nel mondo.

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L’estensione del dominio della lotta

Estensione del dominio della lotta

Il liberalismo economico è l’estensione del dominio della lotta, la sua estensione a tutte le età della vita e a tutte le classi sociali. Ugualmente, il liberalismo sessuale è l’estensione del dominio della lotta a tutte le età della vita e a tutte le classi sociali. Sul piano economico, Raphaël Tisserand appartiene al clan dei vincitori; sul piano sessuale, a quello dei vinti. Certi guadagnano su entrambi i tavoli; altri, su entrambi perdono. Le imprese si contendono certi giovani diplomati; le donne si contendono certi giovani; gli uomini si contendono certe giovani; il problema e l’agitazione sono considerevoli.

Michel Houellebecq è un intellettuale fuori dalle righe, che gode a picchiare duro contro il farisaismo dei difensori del moderno a tutti i costi. Consideriamolo pure un conservatore, ma questo non significa che in lui sia assente un animo pugnacemente progressista. Infatti, il progresso è genuino solamente quando tutela ciò che serve alla costruzione di un futuro migliore e distrugge, nello stesso tempo, gli idoli vuoti della venerazione acritica. La falsa coscienza per Houellebecq è il ’68. Nonostante i propositi solidaristici e gli impegni presi, esso ha finito col produrre una civiltà dell’individuo, che ha combattuto la tradizione ma che nello stesso tempo ha generalizzato il rifiuto per le norme. Liberatisi dall’ingombrante presenza degli avi, i nuovi attori sociali hanno conosciuto una poderosa esperienza narcisistica, smisurata e terribile. La tracotanza, che è il peccato dell’orgoglio contro la legge, ha preso la strada di una rivoluzione sessuale che invece di sancire la fine di ogni conflitto tra i generi ha prodotto l’atomizzazione e l’alienazione dei soggetti amorosi. Così, quasi per contrappasso, una cultura anticapitalistica ha finito con il favorire la mercificazione dei corpi.

L’estensione del dominio della lotta non è altro che questo: l’applicazione della legge della giungla alle relazioni erotiche. Gli uomini “comprano” e le donne “seducono”, misurando se stessi con la forza che deriva dal potere. Tramontata la realtà di una vita di coppia che si determina come forma specifica di un modello universale, cioè la famiglia come spazio della vita etica e come luogo in cui l’individuo si fa genere, marito o moglie, compagno o compagna, restano soltanto l’ipocrisia romantica, con il suo belletto angelico, e peggio ancora l’indifferenza e il nichilismo dei corpi, che si scontrano nell’abisso di una solitudine esistenziale che nessun parossismo orgasmico potrà mai colmare.

Dalle pagine di questo romanzo si apre davanti a noi il desolante paesaggio di un’umanità dolente gettata nell’agone sregolato della sessualità. La disinibizione, tanto bramata, non si trasforma necessariamente in libertà, poiché questo eccesso di possibilità, invece di garantire la piena soddisfazione di un progetto di vita, alimenta soltanto la ferocia della caccia. Houellebecq sembra avvertirci che vi è relazione, in-contro, solo al di fuori della misurazione oggettivante della competizione. L’effimera consistenza delle pulsioni – passioni non mette in comunicazione gli individui, i quali l’uno rispetto all’altro rimangono solamente cose. Essi condividono un conflitto non una fusione, una lotta di sopraffazione reciproca. Un combattimento di strada senza regole.

Il protagonista di questo romanzo, che ricorda per affinità sentimentale il Meursault di Camus, o il Roquentin di Sartre, vive oltre il limite del disagio psichiatrico. Potremmo essere tentati di considerarlo un perdente, un malato, e in fondo lo è davvero. Ma lo sguardo del morboso diventa anche un punto di osservazione privilegiato per capire i meccanismi dell’animalità umana. Possiamo così chiederci se esista qualcosa che meriti davvero di essere chiamato amore. Forse una declinazione amicale di questo sentimento; per dirla con Roland Barth, ciò che rende atopos l’altro, non misurabile, non confrontabile, irriducibile ad ogni quantità. Una coppia anziana che ha spartito con pazienza e tolleranza le tribolazioni di un cammino (dall’odore di scorreggia sotto le lenzuola, alle malattie, alle trasformazioni del corpo che si disfà) ha forse annusato l’odore rassicurante di questa speranza. Ma tutto il resto è lotta, natura matrigna, o volontà di potenza. Effimera affermazione di un soggetto disperato che mai e poi mai riuscirà a bastare a se stesso.

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Ritratti del desiderio

Ritratti del desiderioMassimo Recalcati scrive con il dono della chiarezza. I suoi pensieri si stagliano nitidi ed evocativi, lasciando il lettore attonito di fronte a tanta ricchezza di significato. Sebbene gli facciano difetto alcuni cedimenti pop, alla Garimberti tanto per intenderci, i suoi libri devono essere consumati sino all’ultima pagina.

È il caso di Ritratti del desiderio, un’opera poliedrica tenuta insieme da un tema centrale sviluppato in dodici variazioni. Pescando dai topoi psicoanalitici di Jacques Lacan, Recalcati ci conduce alla scoperta dei reconditi moventi che alimentano il nostro agire. Pulsioni mai lineari, a volte aberranti come, per esempio, l’invidia. Un sentimento che nasce dalla mancanza di riconoscimento legittimo da parte dell’Altro. O il desiderio di niente, che accompagna la struttura effimera di ogni utopia.

Aristotele e Kant avevano creduto in un uomo razionale, padrone del proprio destino. La psicoanalisi ha rotto questo incanto con l’opera di Freud e con la scoperta dell’inconscio. I nostri desideri muovono dall’abisso senza un’apparente scaturigine volontaria.

Da ciò non si può dedurre, ed è questo il senso del libro, la totale estraneità del soggetto all’etica. Egli è in un senso quasi biblico, colpevole sin dall’inizio. È soprattutto responsabile della vita e della morte di ciò che, pur nella sua alterità, appartiene lui indissolubilmente. Il dovere di ciascuno è riuscire a far fluire alla luce le spinte irrazionali secondo un ordine. Ciò è possibile soltanto attraverso l’interiorizzazione del senso del limite.

Questa paziente attività di imbrigliamento, che ogni uomo deve saper ordire con cura e senso del sacro, non si svolge nella solitudine. Recalcati chiama ad un ruolo attivo la comunità intera (partendo dalla famiglia e dai rapporti con i genitori, sino alla società politicamente organizzata). Il destino del singolo è intrecciato con quello di tutti. Il che rende più complessa la scelta, più pesante il fardello dell’angoscia, ma più autentica e vera la nostra esistenza.

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L’arte di ottenere ragione

L'arte di ottenere ragioneQuesto libercolo, pubblicato postumo, è una perla preziosa. Leggetelo lentamente, dimenticando le facili rappresentazioni manualistiche che tratteggiano uno Schopenhauer pessimista e cinico. Andate al di sotto della scorza dello stile clinico e dei contenuti tecnici. Considerare certe frasi sconsolate come se fossero statue di Sileno che nascondono un tesoro

se questa non ci fosse [la naturale slealtà del genere umano], se nel nostro fondo fossimo leali, in ogni discussione cercheremmo solo di portare alla luce la verità, senza affatto preoccuparci se questa risulta conforme all’opinione presentata in precedenza da noi o da quella dell’altro.

perché è proprio in questa franchezza allergica ad ogni forma di ipocrisia che scoprirete un filosofo diverso. L’uomo pietoso tradito da alcuni  impercettibili ma significativi slittamenti del tono: amare constatazioni che attestano l’irresolubile frizione tra tra mediocrità e valori:

l’interesse per la verità, che nella maggioranza dei casi è stato l’unico motivo per sostenere la tesi ritenuta vera, cede ora completamente il passo all’interesse della vanità.

Il fatto è che Schopenhauer è un ribelle e il suo no alla vita si riverbera oltre le catene di affermazioni e obiezioni che accompagnano la lettura. C’è il mondo e c’è il mondo così come potrebbe essere realizzato. Sotto la superficie, l’obiettivo polemico trasmuta. Non tanto l’avversario, con il quale condividiamo i prerequisiti fondamentali che rendono possibile il confronto. Quanto i portatori di una verità dogmatica (dialettici logici) e gli indifferenti; entrambi sprezzatori del dibattito e di conseguenza dell’interlocutore stesso.

E allora benvenuto lo scontro, che può essere incontro e apertura all’altro. Frantumare la vanità, l’egoismo, l’individualismo, per costruire un’armonia sociale da opporre alla tragicità dell’esistenza. Buona lettura…

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