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L’Osteria del Fojonco (introduzione)
C’è chi sostiene che il fojonco sia una specie di faina, un razziatore di pollai che si nutre del sangue delle sue vittime. Altri, come lo scrittore Giuseppe Pederiali, secondo me più nel giusto, assicurano che tale bestia abbia piuttosto le sembianze di un goffo rapace; un uccellaccio a tre zampe, con una passione irresistibile per il buon vino. Non ci sono prove incontrovertibili della sua esistenza, ma alcuni indizi sì: racconti di cacciatori e contadini che parlano di strani nidi intrecciati con foglie di vite e fronde di olmo, o di inspiegabili sparizioni di lambrusco dalle cantine. Insomma, come dicono i vecchi della bassa, fole, racconti da osteria, mentre la nebbia, fuori, ammutolisce la campagna.
A Santa Vittoria di Reggio Emilia, il gradino più basso della piramide sociale è occupato dai braccianti, i proletari della terra. Il bracciante d’inverno sente i morsi della fame, perché il campo non ha bisogno che di poche cure, e il lavoro scarseggia. Si mangia polenta, solo polenta; mai un boccone di carne. E si muore di pellagra. La morte è una presenza costante e il suono di una marcia funebre copre tutti i giorni la strada che dalla chiesa porta al cimitero. E allora, per guadagnare una dignità umana, ci si inventa di tutto, anche un nuovo modo di vivere e di lavorare. Suonare quando il campo è addormentato, durante le feste di carnevale, o per quelle dei santi; suonare per tutte le ricorrenze e con un unico scopo: costruire una vita migliore.
Questa è anche la storia di Arnaldo Bagnoli, violinista virtuoso, un uomo semplice e nobile al tempo stesso. Arnaldo faceva il liscio, la musica da ballo peccaminosa e sgradita ai preti, perché i giovani la ballavano allacciati, piroettando in turbini di desiderio e di carezze celate agli sguardi severi dei genitori. Oggi dici liscio e pensi subito a certi intrattenimenti un po’ bizzarri, ma una volta era una cosa diversa, non una cosa più seria o più raffinata, semplicemente diversa. Il liscio era la musica nella quale una generazione di uomini di fatica riconosceva il proprio emblema. Come ricorda Carmelo Mario Lanzafame, era la musica del socialismo, che tumultuoso a passo di valzer si diffondeva nelle campagne, di pari passo con la nascita delle prime cooperative. Era la musica che si ballava nei festival, nelle balere: luoghi magici, che impresari stravaganti trasportavano in blocchi nella campagna, e che poi si montavano con l’unico scopo di far innamorare le persone.
Ti pare di vederli, i festival; se ne stanno lì, in mezzo al niente, come navi che solcano mari oscuri, illuminati dalla calda luce dell’acetilene. Pavimenti di legno, lunghi anche settanta metri, tirati a lucido come i parquet dei signori per fare scivolare meglio le scarpette dei ballerini. L’orchestra al centro della sala e tutt’intorno le coppie a volteggiare. Valzer, mazurke, polke, e tanghi; un ballo dopo l’altro. E poi un preludio d’opera, di quelli che si ascoltano dagli organetti o dalle bande di paese, per rompere il ritmo della serata e per fare riposare i danzatori. Gli sguardi appassionati, i sorrisi; la danza che cura con l’oblio la pesantezza della vita.
Se le musiche di Arnaldo Bagnoli, seppur in frammenti, sono tornate alla luce come tesori nascosti che il tempo aveva seppellito nella memoria, il merito è di Andrea Bonacini, presidente di Shéhérazade. Gli arrangiamenti di Davide Bizzarri e il lavoro degli altri membri del gruppo, di Riccardo Tesi e Claudio Carboni, hanno fatto il resto. Ci siamo divertiti a giocare con la tradizione, ad alternare brani in versione filologica ad altri più creativi, in uno sforzo di elaborazione che nasce da un confronto costante. Mi piace poter dire, adesso che tutto è terminato, che questo lavoro non è la fine di un percorso ma un nuovo inizio, un’esperienza che non ha nessuna vocazione antiquaria, ma che vuole fare del passato un presente da rilanciare nel futuro.
Orfeo Bossini
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