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Risolvere problemi

Uno studio OCSE – PISA del 2012 ha sottoposto gli allievi quindicenni di 44 Paesi ad una serie di testi per misurare la loro capacità di risolvere problemi non scolastici. Nonostante le difficoltà nel raggiungere le medie di rendimento nelle prove matematiche i nostri ragazzi hanno rivelato competenze inaspettate in problem solving. In particolare gli studenti del Nord si sono classificati tra i primi dieci nelle classifiche, con capacità paragonabili a quelle dei pari età di Shanghai e Taiwan. Scrive Francesco Avvisati, ricercatore OCSE – PISA, sul Corriere:

Un ambiente virtuale – creato al computer – è stato usato per simulare situazioni di vita reale, quali un dispositivo elettronico che non funziona oppure un viaggio da pianificare. Lo studio ha permesso di osservare la capacità di misurarsi con problemi la cui soluzione non è immediata. Ai giovani studenti era richiesto di mostrarsi aperti alle novità, di accettare il dubbio e l’incertezza, e talvolta di osare una soluzione sulla base del loro intuito. Ma anche di ragionare in modo deduttivo e di imparare durante il test a navigare una situazione complessa, utilizzando le informazioni disponibili e quelle ottenute in risposta alle proprie azioni.

Francesco Avvisati, Correre della Sera, 1 aprile 2014

Ora, i risultati sono effettivamente sorprendenti, anche alla luce del fatto che sono gli studenti meno bravi ad aver raggiunto i punteggi più alti, ma in un certo senso non fanno altro che confermare uno stereotipo del tutto italiano: la nostra connaturata capacità di sapercela cavare in ogni occasione. Improvvisare, destreggiarsi negli imprevisti, sono indubbiamente qualità importanti ma solo se orientate all’interno di una strategia più ampia. Non c’è futuro nell’arte di arrangiarsi, solo amministrazione del quotidiano. In sintesi, ben venga il problem solving come risorsa, anche per valorizzare le intelligenze “divergenti”, ma solo all’interno di una strategia più ampia. Solidarietà, responsabilità, onestà, coraggio, sono valori che mancano nell’azione di progetto e rispetto ai quali il lavoro di formazione è lungo, faticoso, ed estremamente complicato.

 

 

 

 

 

 

 

 

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Classi 2.0

Hanno avuto paura di «andare a sbattere», come quando si guida la macchina senza patente. Così, alla proposta di trasformarsi in «Cl@sse 2.0» – tutta tablet e tecnologia – la IB dell’elementare Iqbal Masih di Roma, ha detto no. «No» per le modalità («una decisione comunicata dalla scuola a inizio anno, senza che i genitori venissero prima informati e consultati», spiega Mauro Giordani, un papà che guida il gruppo di «dissidenti» tecnologici). Ma no, soprattutto, «per un progetto i cui effetti non sono noti né a noi, né alle insegnanti, né al ministero proponente». Troppa didattica digitale, sono convinti i genitori, può essere dannosa. Lo hanno messo per iscritto, illustrando i loro timori con citazioni di articoli, studi autorevoli e testimonianze di studenti e insegnanti che mettono in luce i rischi: dispersività, dilatazione dei tempi di lavoro, perdita di attenzione e di parte dei contenuti didattici.

via Antonella De Gregorio, Corriere della Sera

Alcuni principi, generalissimi e prudenziali, rispetto all’uso della tecnologia a scuola mi sento di poterli dare anche io. Niente di particolarmente originale. Solo il frutto di una ormai lunga riflessione dentro l’equipe di Lepida Scuola.

1. La tecnologia non è un feticcio. Non basta studiare con tablet e LIM per gettare i ragazzi nella modernità e mettere la scuola al passo con i tempi.

2. Il vero cambiamento è solo pedagogico. Serve una trasformazione della didattica che aiuti i ragazzi a misurarsi con problemi complessi. Laboratori, progetti, cooperative learning, sono buone pratiche che vanno nella giusta direzione.

3. Evitare iconoclastie e fanatismi. Trasformazioni lente e soprattutto intelligenti producono effetti duraturi. Non cestinate manuali e le care vecchie lezioni frontali; ve ne pentirete.

4. Andare in profondità. Usare la tecnologia a scuola, in un ambiente protetto e educato, può essere un buon esercizio per capire che la bellezza dell’informatica non sta solamente nella possibilità di creare connessioni infinite; e che la velocità non è un valore in sé, con buona pace di Alessandro Baricco.

5. Lavorare costa fatica. Ci sono 100 modi di fare bene le cose, uno solo è quello giusto. Tu, professore, che esci in cortile a fumare la sigarettina perché tanto stanno facendo lavoro di gruppo, sei in malafede. La complessità richiede cura maniacale. Se vuoi faticare meno scegli  la vecchia spiegazione. Sarai meno cool (capitano, mio capitano!) ma molto più onesto, con te stesso e con i tuoi studenti.

6. Imparare la creatività. La tecnologia può aiutare a far emergere intelligenze che nella didattica tradizionale restano silenti, e frustrate. Valorizzare il pensiero divergente è un obiettivo educativo e democratico insieme.

7. Amare il proprio lavoro. Alla fine la passione viene prima di tutto. Perché resta e aderisce più in profondità dei contenuti, e delle scelte didattiche. Questo loro lo sanno sin dal principio; da quando ti vedono per la prima volta, dal modo con cui apri il registro, dalla tuo essere tutt’uno con ciò che dici.

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Escher

Uno dei concetti che gli studenti di filosofia comprendono con maggiore difficoltà è quello di risoluzione del finito nell’infinito. Una rappresentazione intuitiva di questo principio la si può trovare nel lavoro di Maurits Cornelis Escher (1898 – 1972), un incisore e matematico olandese. Il vedere può aiutare il capire, così come il mito in Platone spiega la filosofia? Può essere ma anche no. Di certo soggiornare nella casa della bellezza, confrontarsi con l’arte come in questo caso, è un’abitudine così in disuso che va certamente stimolata, se vogliamo conservare almeno la speranza di salvare il nostro povero mondo.

Verbum

Verbum

La prima opera che propongo (Verbum) è interessante per la sua labirintica complessità. Non solo al di sotto della percezione categoriale del disegno (rane, uccelli, e pesci) è possibile cogliere un’unità di fondo, ma se osserviamo dinamicamente il quadro (in senso orario e antiorario) si può notare come ogni figura trasmuti in quella successiva, attraverso una trasformazione che ricorda la tecnica della dissolvenza incrociata usata nel cinema, mentre tutte quante derivano per emanazione dall’esagono luminoso centrale (il quale a sua volta richiama l’esagono più grande che contiene l’insieme di tutte le determinazioni). La relazione con la filosofia è evidente. Basti pensare a Spinoza e al rapporto tra sostanza, attributi e modi. I modi, secondo il filosofo, non sono altro che manifestazioni necessarie o contingenti degli attributi della sostanza. In questo senso, il molteplice e l’unità vengono a coincidere nell’ordine geometrico del mondo. “Tutto è” secondo una regola che non lascia spazio alla libertà o al finalismo della natura. Rane, pesci, uccelli, in Escher, idee, persone, azioni in Spinoza. Ciò che appare diviso è in realtà una sola cosa.

Il Limite del Cerchio

Il Limite del Cerchio

I temi de Il Limite del Cerchio invece sono due (o tre, o infiniti… fate voi!). In primo luogo il rapporto positivo – negativo (il demone è l’ombra dell’angelo e viceversa, ed entrambi si possono intendere come porzioni di un’unica figura più grande che ricorre più volte dal centro sino alla circonferenza, rimpicciolendosi mano a mano) che richiama fortemente la dialettica hegeliana. Ogni dire, infatti, è sempre un contraddire (angelo e demone, luce e ombra), che tradotto in termini logici diventa: se A = A allora A = non B. La definizione dell’identico passa attraverso il disegno del differente.

Il dire è sempre un contraddire. Se dico la cosa la contrappongo – “astraggo”, individuo, separo – da ciò che essa non è – dall’Altro. Ma nel dire la contraddizione, questa è tolta: il dire sa di dire sé e l’altro-da-sé, dunque tornando in sé – riflettendo – ristabilisce l’identità. Il movimento è: dire – contraddire – ridire.

In secondo luogo, da questo rimpicciolirsi graduale e coerente (che, detto per inciso, mi fa scorgere una sfera vista dall’alto al posto del cerchio e che svela come ciò che appare rettilineo possa essere in realtà curvo) discendono alcune conseguenze “sconcertanti” che riguardano la percezione geometrica dello spazio. Il percorso dal centro alla periferia è finito e infinito nello stesso tempo (ricordate i paradossi di Zenone di Elea?). Finito dal punto di vista della totalità del sistema, infinito per chi all’interno volesse percorrere tutti i punti del raggio. Ipotizzate di essere dentro il cerchio con un regolo in mano. Camminando verso la periferia rimpicciolireste senza accorgervene, col risultato di avvicinarvi indefinitamente senza mai raggiungere la circonferenza. Non solo. Posti due punti A e B sulla circonferenza la distanza più breve tra essi non sarà la corda rettilinea ma un arco convesso verso il centro. Il disegno è evidentemente ispirato al lavoro di Henri Poincaré, un matematico francese che ha proposto questo modello di geometria iperbolica meglio noto come disco di Poincaré. Dal punto di vista filosofico quel che ci interessa rilevare è che la nostra percezione dello spazio appare semplice ma è sostanzialmente complessa. Il finito è tale ma solo all’interno di un sistema di riferimento. Cambiando il sistema cambia anche la natura dell’ente (il raggio da segmento diventa una semiretta).

Salita e Discesa

Salita e Discesa

Termino questo breve divertimento su Escher e il tema della partecipazione del finito nell’infinito con “Salita e Discesa”. Le scale che i monaci percorrono sono in salita o in discesa? Mah, evidentemente questo anello è uno Strano Anello.

Una e la stessa è la via all’insù e la via all’ingiù

No, non è un koan zen ma un aforisma di Eraclito. Dove sembra esservi il doppio si nasconde l’unità. Un’unità che va dis – velata e che è il recondito significato del mondo a cui solo chi è filosofo può accedere.

Ascoltando non me, ma il logos, è saggio convenire che tutto è Uno

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Addà passà ‘a nuttata

Diffusione del computer a scuola

Questo rapporto OCSE sulla diffusione dei computer a scuola lascia poco spazio ai commenti. Se, come asserito da più parti, sviluppo economico e investimento scolastico sono due variabili strettamente connesse, la soluzione ai problemi del Paese è una speranza di là da venire.

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Abbi pietà di me!

Spesso in classe capita che uno studente del primo corso alzi la mano e chieda: “prof., ma perché i filosofi si fanno tutte queste domande?”. In quella questione naturalmente è già implicito il giudizio: filosofare è una cosa astratta e un’inutile elucubrazione mentale; la vita è altro e ha esigenze ben diverse… Di solito me ne resto lì nel mezzo della spiegazione, un po’ basito ma per nulla sorpreso. Poi rispondo più o meno così, tra il serio e il faceto, accettando la sfida di questa sfrontata gioventù.

Caro studente, cominciamo con l’evitare le considerazioni didattiche. Perché se è possibile che la filosofia aiuti la formazione di determinate competenze (saper analizzare, saper usare la logica, saper scindere i punti di vista ecc.) sono convinto che essa vada difesa soprattutto per un un valore in sé .

Ma non vorrei nemmeno usare questo argomento e percorrere l’antica via della persuasione. Non voglio portarti ad essere ciò che non vuoi essere. Per la mia autorità potresti darmi ragione solo per compiacermi e questa, tanto per intenderci, non sarebbe proprio un bella prova filosofica.

Ti dico solo che filosofi si nasce. Come si nasce musicisti, poeti, letterati, architetti. Certo c’è il lavoro, lo studio che matura un’inclinazione ingenua. Senza il lavoro l’idea resta un guscio vuoto, un caotico e astratto credere di sentire. Ma ogni agire significativo ha le proprie radici in un’esigenza dello spirito. La vocazione è riconoscere un’autenticità dentro di sé. Per me, nella mia esperienza personale, essere filosofo significa soprattutto stare davanti al mondo attraversato da una specifica tonalità emotiva. Si chiama jamais vu ed è il contrario del déjà vu. Le cose sono lì, come sempre, ma a volte appaiono sotto una luce nuova, quasi trasfigurata.

E la mia non è un’idea nuova. In questo non sono per nulla originale, ma del resto ho abbandonato da tempo l’ambizione mondana di essere creativo. C’è un filosofo che si chiama Aristotele (non lo abbiamo ancora fatto ma ci arriveremo!) che in un suo libro intitolato La Metafisica sostiene che la filosofia nasca dalla meraviglia. Ora, meraviglia può essere sinonimo di stupore, ma anche di sbigottimento. La realtà sbigottisce il filosofo che non sa darsi spiegazione del perché le cose accadano così come accadono. Il nascere e il morire, il dolore, il cambiamento, l’Essere al posto del Nulla.

Quindi se credi che la filosofia debba essere una saggezza utile a qualche cosa ti sbagli. Piuttosto è un prodotto del disagio. È il tentativo di dare una risposta ad una domanda che sorge dal di dentro e che a volte può spalancarsi in un grido di disperazione (a volte, non sempre…). Accogliere l’insensatezza e non rimuoverla, sfidare l’abisso con la corazza del cavaliere di Durer, in bilico tra la morte e il diavolo. Questo è il filosofo.

Il cavaliere, la morte, e il diavolo

Il cavaliere, la morte, e il diavolo

Dici che è una teoria ben strana? Può anche essere, ma secondo te che cosa fa di un uomo uno psichiatra, la sanità mentale o la follia che è dentro di lui? Potremmo estendere il ragionamento per analogia ai poliziotti (che sono un po’ ladri) o ai pompieri (piromani). E così via. Il filosofo si interroga sul mondo perché non sta bene al mondo. È molto semplice.

Se potessi evitarmi di essere filosofo non perderei l’occasione. Smetterei di speculare sulla foglia che cade e vivrei la mia esistenza come un animale nel mezzo della natura, mosso dagli istinti e senza tentennamenti. Ma sono un uomo (pardon un essere umano, le parole sono importanti!) e sul più bello mi arresto. Dilaziono, sublimo, mi blocco in una nevrosi che mi si attorciglia alla volontà. Ed ecco che si produce la domanda, con una forza inesausta.

È come se tentassi di coprire con il pensiero quella distanza che intercorre tra l’io e l’azione. Penso perché fatico ad agire. Anzi, i cambiamenti mi rabbuiano davvero. Quindi la prossima volta che mi incontri per i corridoi e mi saluti, ti prego, abbi pietà di me e del mio dolore.

E non ti sia più leggera questa amara constatazione solo per il fatto che nel suo domandare il filosofo realizza l’essenza umana in una delle sue gradazioni più pure. Infatti dove sta la differenza tra l’uomo e l’animale se non nella capacità di contemplare e di domandare? Non perdere la compassione solo perché sono speciale, la mia differenza, ora lo sai, la pago a carissimo prezzo.

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