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E se provassimo a guardare con l’occhio di un bambino?

Ada Cattaneo scrive questo articolo (sul suo blog) che merita di essere condiviso. È un’interessante e simpatica riflessione sulle potenzialità relazionali dell’immedesimazione, corredata da immagini dal forte impatto comunicativo. Di seguito un esempio…

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Vecchio libro di storia

Spigolando tra i tag di wordpress, mi sono imbattuto in questa delicata poesia. È di Angela Merletti, e sul suo blog ne potrete trovare molte altre.

Una raccomandazione soltanto: non buttate i manuali di storia. Verrà un giorno in cui incontrerete qualcuno che vi spiegherà che quei “fogli cavalcanti/superflue epoche” raccontano invece il presente scavando nelle profondità del passato.

E ripenserete alle ore interminabili di studio, su pagine che rimanevano mute di fronte alle vostre domande. E al fatto che sarebbe bastata una buona parola, un gesto, per interrompere la crudeltà con cui gli insegnanti vi scagliavano dall’alto Napoleone Bonaparte e la Guerra dei Cent’anni; come saette, quasi a punire una spontanea tracotanza adolescenziale.

Verrà un giorno, forse, in cui quel libro parlerà anche di voi…

Getto

vecchio libro di storia

dagli angoli scollati.

Pagine leccate

girate e rigirate.

Impronte digitali.

Nottate a capo chino

su righe evidenziate.

Al macero capitoli di secoli.

Fogli cavalcanti

superflue epoche.

Linee temporali

cadute a picco

nella spazzatura.

Anelli di congiunzione col passato

brancolano sull’orlo di cassonetti

tra svariate

raccolte differenziate.

(Angela Merletti, poesia prima classificata Premio Momenti di Poesia, sezione tema libero Tutti i diritti riservati. Ne è vietata la riproduzione anche parziale.)

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Come nascono le buone idee?

Un’altra interessante animazione targata RSA (via diariodiscuola). Dopo Ken Robinson alle prese con i paradigmi dell’educazione, in questo video Steve Johnson ci illustra le condizioni ricorrenti che stanno alla base delle buone idee. In sintesi:

  1. le buone idee nascono soprattutto all’interno di ambienti in cui il caos viene organizzato
  2. le potenzialità delle idee restano latenti sino a quando queste non collidono con idee diverse
  3. le tecnologie favoriscono l’incontro di nuove idee
  4. il pensiero reticolare ha la stessa dignità di quello sequenziale
  5. per avere buone idee c’è bisogno di tempo, molto tempo…

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Cambiare i paradigmi dell’educazione

A parte l’efficacia dello sviluppo grafico e media, questo video pone alcune questioni che vanno sottolineate:
  1. esiste una continuità tra educazione e sistema produttivo. Questa relazione, in una società complessa e liquida (per dirla con Bauman) è entrata in forte crisi.
  2. il sistema scolastico tradizionale ha da sempre premiato le intelligenze di tipo accademico (linguistica e logico – matematica), marginalizzando gli studenti non conformi agli standard di comportamento e rendimento.
  3. la scuola addestra al pensiero unico, rendendo molte persone infelici per tutta la vita
  4. la scuola non insegna a lavorare in gruppo
  5. la scuola non ha compreso il valore dell’arte nella formazione della persona
  6. se vogliamo giocarci ancora qualche chance di successo per il futuro dobbiamo cambiare i paradigmi della nostra educazione
Poi, magari, non tutto è condivisibile. Soprattutto alcuni passaggi che sottolineano la monotonia dell’apprendere (dal mio punto di vista un prezzo da pagare, specialmente all’inizio di un cammino difficile…). Inoltre, è evidente che insegnare l’arte non basta ad allenare la creatività. Conosco scuole destinate a questo scopo (v. i Conservatori) che sono palestre di omologazione…

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Nella mia classe non vola mai una mosca

Nel suo ultimo libro (Togliamo il disturbo, Guanda Editore), Paola Mastrocola sostiene che la nuova cultura progressista ed egualitaria figlia del Sessantotto si sia imposta a scuola grazie ad una feroce battaglia contro i contenuti.

Si teorizza l’esaltazione della metodologia, la vittoria del come sul che cosa si insegna. Colpa anche della UE, che attraverso le sue direttive obbliga i docenti a perseguire le competenze, concetto fumoso, e a lasciar perdere i programmi, con conseguente vittoria delle verifiche a crocetta, e delle animazioni visive e teatrali.

Ora, non voglio fare di certo l’apologia della didattica spettacolare, o di quel pedagogismo deteriore che trasforma i segmenti in bastoncini. Ma, per favore, non venitemi a dire che le competenze sono oscure, perché chi è abituato a fare sa riconoscerle distintamente.

Ecco un esempio. Prendete un musicista uscito dal conservatorio e dal liceo musicale (un musicista fortunato che ha incontrato buoni docenti!). Avrà accumulato, in anni di duro lavoro, parecchie conoscenze di storia della musica, composizione, letteratura, filosofia, e tecnica strumentale. Diverse abilità: solfeggiare, suonare, cantare. E naturalmente alcune competenze. Quali? Quelle apprese frequentando i corsi di esercitazione orchestrale, musica da camera, quartetto. Ovvero quelle classi – laboratorio in cui viene surrogata la futura esperienza lavorativa.

Non è difficile comprendere come la responsabilità verso il lavoro degli altri, l’autonomia, o la capacità di risolvere problemi, siano attitudini allenabili solamente attraverso consegne di tipo operativo. Non basta un ottimo violinista per fare un eccellente orchestrale. A maggior ragione per suonare all’interno di un gruppo da camera si richiede un know how ancora più raffinato, afferente al management o alla followership a seconda dei casi.

Il transfer dal mondo musicale a quello delle professioni è intuitivamente immediato. Si dirà che queste argomentazioni valgono per l’insegnamento tecnico, ma non per il liceo; dove si fa cultura, una cultura non svilita da possibili applicazioni pratiche. E allora peccato per gli studenti liceali, che diventeranno ben educati ma che perderanno chance importanti per essere felici, nel lavoro e nella vita.

Perlopiù questi ragazzi saranno medici, avvocati, artigiani. Faranno gli impiegati o gli ingegneri, addirittura molti svolgeranno professioni che oggi nemmeno esistono. Quali sono le ragioni per cui non si offre anche a loro un apprendimento che integri l’insegnamento dei contenuti?

E’ questa la domanda centrale della rivoluzione in atto: una volta non ce lo chiedevamo, adesso sì. Una volta non pensavamo al fine e al senso e alla “ricaduta” concreta di un canto di Dante: perché per noi i canti di Dante avevano un senso e un fine in sé. La cultura era esattamente questo: qualcosa di assolutamente fine a se stesso, e dunque “utile in sé”, utile a priori, utile di una sua specifica utilità, non verificabile, non misurabile, non commerciabile.

Vorrei estendere la riflessione al concetto di “violenza simbolica”, toccando anche il problema degli effetti pervasivi che il modo di comunicare ha sul contenuto del messaggio (il Dante in sé…); vorrei ma in fondo non ne vale la pena, perché la questione è molto più umana. Come ricorda Camus: bisogna adoperare i propri principi nelle grandi cose, nelle piccole basta la misericordia.

Capisco quindi la paura e il senso di inadeguatezza che tanti provano di fronte al cambiamento: significa perdere un nido confortevole, con regole certe e liturgie rassicuranti. Vuoi mettere con il casino che c’è là fuori? Nella mia classe non vola mai una mosca! Questo si sente dire nei corridoi…

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